rovelli e godurie

febbraio 15, 2011 § 12 commenti

.
Ho due godimenti di pancia quando penso alla manifestazione del 13 febbraio: il primo sono le piazze piene di un po’ di tutto che mi dicono che gli italiani non sono del tutto paralizzati e impigriti e cinici. È un’immagine di sanità mentale e civica, quanto meno c’è un pubblico ampio se qualcuno o qualcosa volesse esserne il traghettatore verso un altro modello di società (possibilmente privo non solo di consigliere regionali che l’hanno data per il posto pur non valendo niente, ma anche ripulita da consigliere regionali che pur non valendo niente sono entrate in lista perché figlie di, mogli di). Ci vorranno vent’anni, la manifestazione di domenica non è il passo inaugurale.

L’altro godimento da schadenfreude sono le parole stupide, ridicole e frettolose messe insieme dagli uffici di comunicazione del governo, probabilmente preparate giorni prima o forse no ma comunque parole che mettono l’evidenziatore giallo sulla sorpresa e sul disprezzo come unica risposta encefalica di questa maggioranza anossica (io ci vedo anche la conferma della mia personale teoria che la comunicazione politica è una professione per i poco dotati di ogni civiltà dotata di linguaggio).

Ma ho anche due rovelli cerebrospinosi che non riesco a cavarmi dalla testa. Il primo mi viene dalla sensazione (ho solo letto blog in giro) che le piazze non siano state del tutto igienizzate da serpeggiamenti e rancori da “noi sveglie alle sei di mattina sull’autobus contro loro che aprono le gambe” (anche se pure loro le trovi sull’autobus alle sei di mattina).
Non so come dire e ho paura di dirla male ma l’idea che ci sia un noi e loro, un noi e voi non mi convince né come strategia politica a breve termine né come discorso sociale potenzialmente dirompente dei problemi, soprattutto di struttura del mercato del lavoro, nel lungo termine. Tipo, l’Italia deve capire che un disoccupato è un lavoratore che non lavora e non un questuante da messa.

L’altra cosa che mi arrovella e non so dire bene è: ma a chi parlavano queste piazze? A Berlusconi? A chi lo appoggia? A chi deve preparare la piattaforma dell’opposizione per le prossime elezioni? A quelli, stronzissimi, che “le donne salveranno la politica italiana” così da infilarci di nuovo tutte nella categoria delle sante, affidarci responsabilità senza potere? Questi sono il nocciolo duro dei convertiti, non so se serve parlare a loro.

O parlavano agli uomini che “mi sposo se no pensano che sono frocio ma se devo divertirmi vado al bar con gli amici”? Alle donne che li sposano?
Io avrei voluto che parlassero a questi uomini, schiavi dei loro preconcetti e di un’immagine della vagina come buco nero da riempire e non bocca con cui dialogare.

E avrei voluto anche che parlassero alle donne che la danno via per un posto in parlamento o per un posto qualunque, a quelle che la tetta è tutto, alle schiave del mascara, alle adolescenti che un’altra donna è solo competizione di mercato, parlare per dire: sediamoci ad un tavolo, beviamo una bottiglia di primitivo di quello che taglia le gambe e parliamo, parliamo e rompiamo questa schiavitù della paura della figa e del cazzo e torniamo, ve ne prego, a fare pompini per amore e solo per amore (del pompino o dell’uomo, a me fa lo stesso).

statistiche da jena

luglio 20, 2010 § 5 commenti

Inail: in Italia calano le morti sul lavoro.

È perché non contano i suicidi tra i disoccupati.

forse è venuto il momento (l'amore vince sull'odio)

giugno 28, 2010 § 2 commenti

“Forse è venuto il momento di piantarla con l’indignazione e con la denuncia frustrante delle mille porcherie di tutti i Berlusconi del mondo. Forse è il momento di concentrare tutta l’attenzione su un argomento diverso: come può il lavoro precario e cognitivo trasformare l’esplosione imminente del lavoro operaio in un processo di redistribuzione della ricchezza, di esproprio generalizzato, di sabotaggio contro la macchina mediatica dello schiavismo, di autonomia della società dal dominio criminale della finanza?” Bifo su MilanoX

Me lo chiedo anche io. E mi chiedo come possono migliaia di accademici precari ancora dire sì e chinare la testa e vendere tutto per niente. Mi chiedo perché non si ribellano, perché non si rivoltano. Mi chiedo perché accettano di promuovere e riprodurre questo sistema accademico senza fiatare, anzi con un solo fiato: un sospiro di sollievo quando riescono a farsi rinnovare le docenze a contratto a 200 euro l’anno o quando entrano di ruolo e sotto sotto pensano di avere conquistato chissacosa e invece si sono accaparrati solo la possibilità di essere un po’ meno bravi e un po’ più banali e un po’ più serpi di chi li ha messi lì. Mi chiedo se hanno sentore che il loro precariato è in gran parte colpa loro.

Mi chiedo se non capiscono che l’uscita da questa situazione si può trovare solo insieme agli operai di Pomigliano e agli scontenti delle partite IVA, ai rancorosi delle troppe tasse e pochi sevizi perché stessa è la causa del malessere e del malvivere e stessa dovrà essere la soluzione.

Mi chiedo se l’ho capito io che me ne sono andata.

Postilla (l’amore vince sull’odio): ieri si discuteva a più riprese e in più modi su cosa e come scardinare, far saltare i meccanismi, regole, abitudini (istituzioni, nel suo significato originale) che inquinano e lottizzano il mondo e il mercato del lavoro in Italia. Una delle soluzioni proposte consisterebbe nel trasformare tutte le università in fondazioni e renderle completamente responsabili di se stesse. Come per la completa autonomia fiscale questo però le renderebbe anche deboli e dipendenti. Una illusione se non di libertà, sicuramente di forza.

Io credo invece che sarebbe giusto fare l’opposto. La roccia su cui sono ancorati gli aspetti più beceri dell’università in Italia si chiama selezione. Se vogliamo sbriciolarla dobbiamo riversare su di essa vagonate di soldi pubblici. Almeno il doppio o il triplo di quello che l’università riceve oggi. Là dove oggi chi seleziona può nascondersi dietro la maschera del “c’è un posto solo per tanti che lo vogliono” questo non reggerebbe più. Là dove la selezione deve essere tra uno bravo e uno così così, si dovrebbero assumere entrambi e lasciare al talento, alla dedizione e alla sicurezza economica senza la quale non c’è tempo né spazio per pensare, la decisione di portare uno dei due alle vette della carriera. Questo in fondo è il modello anglosassone, dove la carriera universitaria non gode dello status symbols deficiente di cui gode in Italia, paese in cui professore è titolo ambito anche da chi ha una miserrima docenza a contratto. Perché meritocrazia non significa che ai migliori vanno i pochi posti disponibili. Questa è la scemenza in cui cade pure il PD. Meritocrazia significa che i mediocri stanno in mezzo, che il lavoro è un diritto, non un lusso. Che il lavoro accademico non è una questione di eccellenza ma un servizio pubblico (sia l’insegnamento che la ricerca). Che l’eccellenza emerge dalla ridondanza e non dalla selezione anoressica.

Se non lo puoi ferire amalo, lo distruggerai (op. cit.).

è solo dal pleistocene che le donne…

giugno 9, 2010 § 20 commenti

Ieri ci sono state le presentazioni finali degli studenti di uno dei corsi che insegno. Senza tediarvi oltre gli studenti dovevano presentare idee e progetti per un pezzo di spazio terrestre che si chiama London Thames Gateway che adesso è abbastanza mal messo ma una volta c’erano i docks da un lato e la Ford dall’altro. Proposte di sviluppo, di futuro, di case e posti di lavoro.

E va be’ tutti più o meno bravi questi studenti, tutti più o meno infarciti di retorica new labour, di fuffa new labour, di post-politica new labour, di a-ideologia new labour che al confronto il PD sembra un partito maoista.

Un gruppo di studenti ha deciso di chiosare la sua proposta con la storia, inventata, di una famiglia della zona attraverso tre generazioni, dal passato al futuro.

E si parte negli anni 50 con Peter che si trasferisce per lavorare nei docks londinesi, si sposa con Rosie e hanno un figlio John che lavora anche lui nei docks ma poi arriva la Thatcher che li chiude, i docks, negli anni ’80 perché le banche americane fanno più soldi con gli investimenti immobiliari a Canary Wharf che con gli operai dei Catherine docks e alla Thatcher piacevano un sacco le banche americane e allora la seconda generazione si impoverisce e John, il figlio di Peter e Rosie, che nel frattempo si è spostato con Louise e ha fatto un figlio, David, John dicevamo viene licenziato dai docks e fa il muratore un po’ sì e un po’ no e poi arriva la crisi perché pure a Tony Blair e a Gordon Brown piacevano un sacco le banche, molto più della Ford, e arriva anche una flottiglia di bangladeshi e di idraulici polacchi e David, il figlio di John e Louise non ha aspirazioni per il suo futuro e si guarda le scarpe tristemente e pure Louise si strofina le mani tristemente nella casa popolare sempre più fatiscente e però udite udite, annuncio vobis che nell’annus domini 2012 grazie alle fantastiche iniziative economiche e urbanistiche del gruppo proponente, nuove industrie manifatturiere ed ecologiche emergono dal nulla, nuove bellissime ed ecologicissime case vengono costruite, John trova lavoro come installatore di pannelli solari e David ritrova la fiducia e diventa istruttore di sub nel nuovo parco fluviale del Tamigi in cui nuotano le otarie. E vissero tutti felici e contenti. The end.

No aspetta. Manca un pezzo. E Louise? Che fine ha fatto Louise, la mamma di David, la moglie di John? Ah, sì scusate, m’ero dimenticata.  Louise, nel raccontino del mondo ideale, ha smesso il grembiule e trova piacere a riempire il vuoto della sua inutile vita coltivando l’orto urbano e dedicandosi all’arte della ceramica. Nei secoli dei secoli. Foreverandever.

E che sarà mai. In fondo è solo dal pleistocene che le donne fanno i vasi di terracotta.

E io che faccio a questi? Li boccio?

Dove sono?

Stai esplorando le voci con il tag lavoro su ecudiélle.